mercoledì 14 febbraio 2024

Storia del caffè parte 2: viaggiatori e scienziati relazionano sulla più diffusa bevanda

A far conoscere in Europa la bevanda ed i riti ad essa legati prima dell'importazione dei chicchi, contribuirono a partire dalla seconda metà del 1500 alcuni studiosi di storia naturale, viaggiatori, medici ed anche disegnatori, che si recavano in terre lontane, desiderosi di scoprire, conoscere, esplorare e relazionare sui costumi degli altri popoli. Ed il caffè si mostrò loro una delle novità e realtà di rilievo, per cui costituì un tema singolare e significativo dei loro trattati scritti ed illustrati e poi diffusi nella patria d'origine.
Di Leonhard Rauwolf, medico di Aushurg, è uno dei primi libri che parlano del caffè, intitolato "Un viaggio nei paesi d'Oriente", pubblicato a Francoforte nel 1582, in cui riversò le osservazioni del suo soggiorno in Asia Minore, Persia e Siria tra il 1573 ed il 1578. Di quelle popolazioni scrive che «fanno uso tra l'altro di una nuova bevanda, che apprezzano assai e che chiamano chaube: è nera come l'inchiostro e abbastanza utile contro certi disturbi, specie quelli dello stomaco. Sono soliti berla la mattina, fuori casa, senza alcun ritegno; la bevono in tazzine profonde di porcellana, insopportabilmente calda; spesso si riuniscono in gruppo, seduti in circolo, e la bevono a piccoli sorsi, passandosi la tazza. Per prepararla, mettono nell'acqua dei frutti che chiamano bunnu, all'apparenza simili, per colore e dimensioni, a quelli del lauro e coperti da due sottili scorze. Questa bevanda è abbastanza diffusa fra loro; la si vende infatti in molte botteghe e si fa anche gran commercio dei frutti con cui è preparata, come si può constatare passeggiando per i bazar...».
L'italiano G. Francesco Morosini, alto giudice della città dei Dogi, Venezia, ed ambasciatore della Serenissima presso il sultano dal 1582 al 1585, nella sua relazione annotava che i Turchi «quasi di continuo stanno a sedere e, per trattenimento, usano di bere pubblicamente, così nelle botteghe come anco per le strade, non solo uomini bassi, ma ancora de' più principali, un'acqua negra, bollente quanto possono soffrire, che si cava d'una semente che chiamano cavée, la quale dicono che ha virtù di fare stare l'uomo svegliato».
Un altro italiano, Prospero Alpini, detto Albanus, medico ed eminente botanico dell'Università di Padova, così ne parlò nel trattato intitolato "De Planctis Aegyptii et de Medicina Aegyptiorum", stampato nel 1592: «...Ho visto nel podere di un Turco di nome Haly-Bey un albero che dà dei chicchi con i quali Arabi e Egiziani di solito preparano una bevanda che bevono al posto del vino e che vendono nelle taverne pubbliche come noi facciamo qui con il vino: lo chiamiamo Caova. Tali chicchi provengono dall'Arabia Heureuse...».
Il francese Jean Thévenot nel suo celebre "Voyage en Orient" si dilungò ampiamente nel riportare le favorevoli impressioni sul caffè e sull'animazione che regnava nei locali pubblici dove era servito: «I Turchi — scriveva — fanno abitualmente uso tutte le ore del giorno di una bevanda che essi chiamano cahué. Tale bevanda viene preparata con dei chicchi che crescono in Arabia, vicino alla Mecca. Li fanno tostare in una padella o in qualsiasi altro recipiente che regga al fuoco, poi li pelano e li macinano riducendoli in polvere molto fine.
Quando vogliono berne, prendono un bricco adibito, a quell'uso, da loro chiamato Ibrik, lo riempiono d'acqua e lo mettono a bollire; quando bolle vi gettano dentro una cucchiaiata di quella polvere ogni tre tazze d'acqua. Arrivata a bollore, si ritira il bricco rapidamente dal fuoco, oppure si rimescola, se no uscirebbe dal recipiente poiché sale molto rapidamente; quando ha bollito per cinque o sei volte successivamente, la si versa in tazzine di porcellana disposte su di un vassoio di legno dipinto e viene servita così, ancora bollente: bisogna berla più calda possibile, ma lentamente, se no non è buona. È una bevanda nera ed amara con un leggero aroma di bruciato; la si beve a piccoli sorsi per non scottarsi. Se ci si trova in una cavehana (così vengono chiamati i luoghi in cui la si vende già pronta), si può ascoltare anche della piacevole musica da fumeria». Proseguendo a descrivere i locali, così si esprimeva: «Vi sono caffè pubblici ove si prepara la bevanda in grandi calderoni per tutti i clienti. Tutti possono frequentarli, senza distinzione di casta o di religione; entrarvi non è indecoroso; ci si va per distrarsi. Fuori, davanti ai caffè, vi sono panche e sgabelli di paglia su cui si siede chi vuole restare all'aria aperta a guardare i passanti. Talvolta, il proprietario del caffè chiama dei suonatori di flauto e persino dei cantanti, per attrarre la clientela. Se qualcuno, mentre sta nella cavehana vede entrare dei conoscenti, è buona educazione che faccia un cenno al proprietario perché non accetti denaro da loro, in quanto divengono suoi ospiti. Lo fa capire mormorando al caffettiere la parola "gialla", che vuol dire "gratis"».
Sempre nello stesso periodo un altro francese, Antoine de Galland, nell'opera dal titolo "Lettere sull'origine ed il progresso del caffè", annotava che «...L'uso del Chaova si era diffuso nell'Oriente, ed a Costantinopoli non v'era casa alcuna, per ricca o povera che fosse, Armena, Turca, Nera o Ebraica, in cui quella meravigliosa bevanda non si bevesse almeno due volte al giorno, o più; a Costantinopoli, inoltre, si spendeva in caffè quanto a Parigi in vino...».

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